Pubblico- a puntate- dato l’assoluto valore dello scritto con cui mi ha “onorato” le note di lettura di Augusto Benemeglio. a proposito del complesso di INCONCRETI FURORI
1. L’arte suprema della parola
Quando leggiamo i versi cupi tenebrosi angosciosi dolorosi malinconici ( “la malinconia è la vera scienza del dolore e dell’angoscia”) , versi funebri , grotteschi , satanici , apocalittici , talora arcaicizzanti ( “Prima di tutto sopraggiunse la ruina” , “Tutto, tutto affonda” , “Inconcreti furori”, “Nei freddi tramonti azzurri” ) di Dominique Villa dobbiamo oscillare tra il medioevo( i ritmi le scansioni e le rapide scariche elettriche di un Cavalcanti) e il nostro tempo, dove il Nobel di qualche anno fa , Imre Kertèsz , ci dice che la vita è un sogno lontanissimo e assurdo , ma non lo dice alla maniera di Calderon della Barca, né di Primo Levi , bensì della realtà delle cose di oggi , delle cose del nostro vecchio mondo occidentale che è in disfacimento, anzi in “Liquidazione” . E lo è anche la scrittura, intendiamoci, incapace di dire le cose reali , quelle che contano per noi. “I progressi dell’uomo sono un’illusione – aveva scritto Ceronetti quarant’anni prima – , tutto finisce in bancarotta , in degenerata distruzione: non si vede se, in quale momento, una luce abbia tagliato la tenebra umana”. Ma dei pericoli della “tecnica che minaccia l’anima” avevano parlato molto prima anche poeti come Vigny.
E Dominique Villa non può che raccogliere parole dall’agonia, parole spremute , sfibrate, impure, rabbrividenti , essendo una poetessa (ma anche pittrice) figlia del suo tempo , che si porta dietro retaggi oscuri , le rovine, i crolli, le distruzioni interiori , i detriti , il flusso di cose , la propria storia personale , e una componente inconscia assolutamente caotica, misteriosa, un po’ folle, vampiresca, utopistica. E’ una che ha in sé il senso della rovina e del male , la coscienza della nostra decadenza, come Kertész , ma anche quella benedizione celeste ,o diabolica, che è il “romanticismo” a cui noi tutti – diceva Baudelaire – dobbiamo “eterne stimmate”. Quel suo versificare è uno “sparare sulle cose” che assediano le finestre dell’anima, (E giunse così la prima notte:/dalla finestra entrava/ una luce boreale), quel suo rinchiudersi in una cella di torture , dentro i libri e le memorie , e buttar via la chiave per poter comunicare qualcosa di unico , con una “ lingua di carta”, e con la disperata voglia di capire , cioè di ricevere – come un antico oracolo – una parola che la illumini, o la danni, non importa quale , è un po’ la sua vocazione , il suo destino. “La parola – scrive Hugo – è un essere vivente più potente di colui che la usa; scaturita dall’oscurità , essa crea il senso che vuole; essa stessa è quello – e anche di più – che si aspettano il pensare, il vedere, il sentire: è colore, notte, gioia, sogno, amarezza, oceano, infinità” Ma l’arte suprema della parola – aggiunge Ceronetti – è di illuminare senza farsi troppo capire. Cos’è la vita , se non una malattia trasmessa per via sessuale, un “Innaturale momento”? “Come spira infinita( attorno al Fatto, quell’innaturale momento)/ tardi mi assalì l’esistenza- e segreta, squisita, angosciosa-: /il sole della sera incombente/ come una riva di fiamme./ la sua gialla luce ostile /- gli odori corrotti ,/ del deserto e del fiume…
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