Il bar era piccolo, e pure poco illuminato, e inoltre l’insieme dello spazio dava l’impressione di essere utilizzato male, come fosse lasciato volutamente alla deriva, ma, nonostante una immediata impressione di trascuratezza finanche respingente- era contrassegnato da un’insegna metallica dal nome marinaresco e di vetustà inenarrabile, oltretutto mal inchiavardata e come penzolante sul cemento screpolato di un edificio sul quale si incistava anche un elegante negozio di abbigliamento che con le sue ampie vetrine doppie sembrava stonare quasi poi fosse un corpo estraneo male amalgamato con ciò che lo attorniava -era molto frequentato, in alcuni giorni fin troppo, era un continuo entrare da una porta e uscire dall’altra, sembrava di avere a che fare con il flusso stordente tipico delle porte girevoli dei grandi alberghi.
Vi era un continuo via vai, forse perchè era un locale pubblico posizionato favorevolmente, anzi era quella l’unica ragione visto che non aveva nulla di bello, era comodo raggiungerlo, si trovava lungo la via principale – era una via pavimentata a porfido e a senso unico, per via di una certa strettezza dei margini laterali occupati in larga parte da marciapiedi più larghi del consueto – praticamente ce ne era una sola, di via che si potesse considerare meritevole di tale terminologia: solo una piazza rettangolare e quell’unica via c’erano in quel paesotto, le altre strade erano raccordi secondari, viuzze che finivano in punti ciechi o in slarghi privati senza sbocco, magari davanti a mura di cinta dai quali si potevano scorgere alberi di alto fusto, da una di queste ombreggiavano perfino i resti ormai considerati archeologici e pronti a essere recuperati di una delle prime imprese di materiali da costruzione mai formatesi, ormai era una fornace in disuso, la sede era stata spostata in una zona periferica, e adesso il comune aveva intenzione di usare quella magnifica struttura industriale ormai obsoleta ma ancora in buono stato per farne un centro culturale polivalente, lasciando intatti anche i forni appositi.
Quella era praticamente la “Via” di quel paese,oltre a quella parallela e pianeggiante che però si limitava a costeggiare il paese dall’esterno, lambendolo, e che era l’arteria provinciale a scorrimento veloce.di quel piccolo paese in accelerata espansione volumetrica per la sua gradevolezza ambientale e per un evidente progresso economico testimoniato dai continui insediamenti di capannoni lungo una via periferica appositamente denominata senza alcuna fantasia via dell’industria e dell’artigianato, e che era poi la stessa sulla quale sorgeva il solito cimitero con accanto la solita chiesa, che da pochissimo era stata ritinteggiata- con un atto di azzardo mai osato prima- di un bel colore giallo ocra con delle modanature color marrone scuro che meglio ne delineavano l’architettura complessiva- che la faceva parere di maggior pregio rispetto al vero, lì sulla curva estrema che segnava la fine del paese e l’inizio del ponte ad arcate- puntellate periodicamente con iniezioni di cemento e restaurate da poco perchè in erosione progressiva e risalenti a non si sa che epoca , anche se parevano maufatti abbastanza antichi- che segnava l’attraversamento di un fiume che in quel punto era a circa metà strada del suo cammino.
In quel baretto si poteva entrare da due parti, aveva due entrate, e questa era stata la fortuna dei gestori, visto che la probabilità che entrasse qualcuno era in un certo senso doppia rispetto agli altri esercizi commerciali similari: una delle entrate si affacciava direttamente sul corso principale, l’altra- che era aperta su un piccolo stanzino fumigoso e ingiallito con solo due tavolini e un televisore di grosse dimensioni abbarbicato su un mobiletto di truciolato che pareva traballante- l’altra dava su una piazza rettangolare abbastanza ampia e che era l’unica piazza del paese, quella famosa per un mercato settimanale che richiamava gente da tutto il circondario, soprattutto dalle frazioncine collinari che attorniavano un rivo d’acqua che tempo addietro meritava davvero la qualifica di fiume, e che da troppo tempo passava da una secca all’altra, biancheggiando sassoso nel suo alveo piatto e diritto.
Quella piattezza sassosa a cui si stava riducendo il corso di quel fiumicciatolo da un po’ aveva iniziato a fare gola a società di escavazione per via della sabbia e di altro materiale da riporto, caricavano la sabbia su dei trabiccoli e la portavano via illegalmente durante le ore meno trafficate, quel fiume era in pieno degrado, oltretutto in alcuni particolari punti del suo corso lineare e appiattito, quelli più defilati, si erano venute a ricreare man mano discariche abusive di prodotti forse pericolosi, oltre che di rottame metallico di variegata natura, tutti trasportavano relitti e materiale di scarto proprio lungo le sue rive scalcinate e solo quando si era prospettato il probabile inquinamento delle acque si era deciso di correre ai ripari per via della sollevazione dei contadini rimasti, che temevano contaminazioni pericolose per quei loro terreni ancora coltivati.
E i punti meno in evidenza di quel suo lineare letto contornato da colline che in alcune ore del giorno acquistavano un’evanescente azzurrità che amplificava lo stesso suo limitare e faceva perdere la percezione esatta delle sue dimensioni a chi lo guardasse, risultavano nascosti da un verdeggiare vampiresco di rovi e di arbusti lussureggianti che impedivano la vista del suo alveo dalla strada provinciale che correva parallela, non si scorgeva nulla da quella strada diritta che metteva in comunicazione con la provincia. E più di una volta ci si era potuti accorgere di incidenti mortali solo quando autisti di mastodontici camion con rimorchio e che andavano a ritirare dalle campagne circostanti balloni di fieno da dare agli animali dando un’occhiata attorno dal loro posto di guida o dal loro cassone avevano visto luccicare tra erbe altissime la ferraglia di auto accortocciate come fossero dovute passare attraverso una mostruosa pressa , e allora avevano avvertito la locale stazione dei carabinieri, la cui costruzione spiccava con le sue mura color rosa antico quasi davanti al municipio, sembrava una villa vera e propria, era la più bella caserma dell’intero circondario.
La donna, la gerente del negozio, in quelle giornate di invasione clientelare- per via del mercato settimanale del martedì- era in movimento perpetuo, sempre pronta e presente, la si vedeva vorticare anzi più esattamente scivolare da una stanzetta all’altra senza sosta, volteggiava come se fosse in casa sua e lei se ne andasse in giro utilizzando delle patine di feltro su dei pavimenti tirati a specchio, scivolava sulle sue calzature raso terra, che non facevano che evidenziare in modo perfino fastidioso il suo baricentro basso, e l’ossatura robusta ma breve che inutilmente cercava di occultare con golfoni oversize e gonne lunghe a metà polpaccio, di buon materiale tessile ma senza forma, una specie di copritutto senza linee, un tendaggio rappezzato malamente a pseudo abbigliamento e solo con un grande e volitivo atto di immaginazione si sarebbe potuto indovinare la conformazione del suo corpo anche se un ‘estate il marito – che quella volta era solo e tra l’altro con addosso una maglietta della salute senza maniche come se in quel giorno torrido si fosse sentito uno scaricatore di porto che dovesse muoversi libero a trasportare pesi di inaudita mole, e le maniche lo impicciassero, e lei quella volta guardandolo aveva per un istante indovinato l’oscura aderenza tra quella borgata di monotona piattezza e l’insegna del bar con un nome di animale marino – davanti alla sua faccia alquanto stupita si era messo inopinatamente a decantare di punto in bianco le lodi della venustà giovanile di quella sua moglie, facendo perfino intendere, in modo non del tutto allusivo, le sue mirabolanti qualità di femmina che certo era edotta dei minimi segreti dell’ars amatoria tutta, incredibile ma vero, lui ne era testimonio e parte in causa, lo poteva ben dire, lui.
Certo, lei era entrata per la prima volta in quel bar per puro caso, quelli adiacenti- e più belli- quel giorno erano strapieni, e lei voleva sedersi da qualche parte, era dunque entrata perchè accostando quella porta a vetri delimitata da un intreccio di manufatti metallici che parevano anodizzati, e che brillavano dorati come paccottiglia di simil oro- facendo otticamente a pugni con l’intercapedine di cemento scrostato entro cui l’entrata era inchiavardata malamente – aveva scorto finalmente un tavolino libero, nell’angolo più estremo e defilato, proprio in vicinanza di un simil divisorio strutturato a file incrociate di quadrati del tutto simile a quelle impalcature di finto legno che servono a infilare nelle camerette dei bambini oggettistica e souvenir di non eccessivo formato: lei osservandolo aveva pensato inopinatamente anche a quei graticci che servono di solito a fare salire più agevolmente le spire rampicanti di edere.abbellenti, forse ci aveva per un solo attimo pensato perchè in due di questi quadrati erano stati infilate in qiualche modo- lo spazio era del resto davvero minimo-due piantine grasse che forse erano state scelte perchè potevano sopravvivere anche in quell’ambiente con poca luce
E siccome sentiva la necessità di sedersi per un po’ ed era stanca era entrata in quel bar senza averlo esattamente scelto, quasi per obbligo, e si era seduta dietro quella specie di separè, un incongruo separè, quasi una celletta, un fortilizio metaforico in uno spazio del resto limitato, c’era di bello solo che poteva starsene un po’ lontana dalla frenesia di quel giorno di mercato, le era sembrato infatti che tutta la popolazione del circondario si fosse maniacalmente aggregata tutta insieme in quello spazio, in quel paese, e tutti nello stesso momento.
Il resto del bar era tutto un arruffio, un andare e venire, un entrare da una porta e un uscire dall’altra, e su tutto dominava un vocio di uomini seduti intenti e seri -come si trovassero poi in cerchi di affiliati a società esoteriche o forse massoniche a tramare movimenti sotterranei con un linguaggio da iniziati- uomini di aspetto più che maturo seduti a gruppi attorno a quei pochi tavolinetti rotondi che si indovinavano metallici sotto le frange penzolanti di certe tovagliette fissate con dei mollettoni e dalla trama consunta, e che però davano la mostra di essere abbastanza pulite, o forse si presentavano consunte perchè erano sempre le solite, lavate e rilavate, lei pensò.
Guardando- al momento dell’ordinazione da parte di quel gruppetto di avventori- la faccia della barista, quella prima volta si era detta, ma come li sta trattando male, quasi maleducatamente, certo è un po’ strano, non lo dovrebbe fare, sembra quasi che le diano in qualche modo fastidio questi gruppetti di uomini, il suo volto sembra dire che il suo desiderio sarebbe quello di liberarsene a ogni costo, è…è davvero respingente, ma che razza di barista è, i gestori dei posti pubblici sono – quasi per contratto sembrano obbligati a esserlo, in fondo è nel loro interesse, o almeno dovrebbe – gentili per antonomasia, bah, forse è in una giornata no, la sua espressione è quella di una donna che non ne può più, che mai le avranno fatto, lei si era chiesta, ma così, tanto per fare, non ne era interessata più di tanto, le sembrava solo una cosa strana, tutto qua.
E proprio per via di quella faccia rincagnata e malmostosa della gerente, quasi a voler scoprirne l’occulta ragione di essere, lei, da quella posizione defilata e laterale, aveva iniziato a osservare il gruppo di uomini intenti a giocare a carte con una foga degna di migliore causa, i loro gesti in alcuni momenti erano di uomini pronti al combattimento, pronti a tutto, e i volti allora subivano alterazioni imponenti, i lineamenti tirati in espressioni irose a accompagnare imprecazioni e bestemmie, parole che perdevano un po’ della loro crudezza solo perchè venivano detto con le tonalità strascicate e piene di erre dei dialetto tipico di quelle zone.Gli uomini non erano giovani, lei pensò che si doveva trattare di pensionati più giovani della media, o forse di persone in cassa integrazione, forse erano semplicemente degli uomini con molto tempo a disposizione, con ogni probabilità dei lavoratori in proprio che si ritagliavano delle pause a loro piacimento.
Nel gruppetto spiccava – non lo si poteva non notare, la sua menomazione sembrava sbattuta davanti agli occhi altrui, quasi con baldanza, quasi un avvertimento implicito di come a ben vedere le cose si potessero evolvere, e non ci doveva stupire, sarebbe stato da idioti stupirsene, le cose erano così, e basta- un uomo ( che poi, alzatosi per andare a pagare la consumazione si rivelò alquanto imponente e dal fisico dotato di una residua robustezza) che al posto della gamba sinistra si portava dietro un moncherino tagliato al di sopra del ginocchio, e a lei le sembrò che fosse più robusto dalla parte destra, forse nel suo fisico si era stranamente ricreata – dopo l’amputazione, chissà se per malattia o forse per incidente- un riequilibrio, una sorta di compensazione a chiudere quel vuoto artificale causato dal trauma.
Lei all’inizio lo notò perchè era seduto esattamente in obliquo rispetto al suo sguardo, e non poteva non notarlo, si era accorta di un vuoto, di un tessuto floscio che pendeva dal bordo della sedia su cui si trovava, al posto della sua gamba sinistra aveva solo un moncherino, non aveva ancora messo una protesi, forse si trattava di cosa recente, e c’era un bastone grezzo dall’impugnatura arrotondata appoggiata al tavolino in modo da non intralciare i movimenti suoi e quelli altrui, e ogni tanto, anche senza alzarsi, l’uomo dal moncherino vi si appoggiava, con tutte e due le mani, come se quel bastone fosse un portafortuna, una sorta di amuleto da cui attingere energia, magari se lo era intagliato lui stesso dopo l’incidente che l’aveva reso invalido per sempre, in quelle zone aveva notato che tanti preferivano costruirsi dei bastoni da soli, intagliandoli in qualche ramo di quercia o di carpino, le piante autoctone di quel territorio : quel tale aveva certo cominciato a servirsene come fosse una leva, per cominciare a riabituarsi a gestire il suo corpo nel’attesa di potere disporre di una vera protesi, per la protesi ci voleva senz’altro del tempo, o forse lui non l’accettava nemmeno, e quella era una scelta definitiva.
Ben presto però, partendo da lui, si mise a osservare i suoi compagni di gioco, cercando di indovinare quale fosse l’uomo con cui faceva coppia in quella partita fatta con un mazzo di carte ormai logore, quasi bisunte, i colori erano quasi del tutto stinti, le figure apparivano corrose dopo essere state tanto maneggiate nel tempo, nonostante le schede fossero fatte di materiale plastificato e rigido, le carte di quel particolare gioco erano tutte così del resto, lei aveva potuto osservarle per un attimo quando la signora del bar aveva portato loro il mazzo strascinandosi lenta fino a loro: la donna aveva consegnato loro quel mazzo logoro con un gesto come di stizza, come se le desse fastidio che uno dei suoi tavolini potesse rimanere occupato troppo a lungo – e proprio in quel giorno di mercato in cui di solito si guadagnava molto- per via di un passatempo da perditempo che certo non l’avrebbe fatta guadagnare nulla, li conosceva lei quei tipi, li conosceva bene, non consumavano pressochè nulla, se fosse stato per lei avrebbe fatto sparire quei mazzi consunti,era suo marito che continuava a volerli tenere, forse perchè, nei pomeriggi lunghi d’estate, quando sua moglie se ne andava a riposare nella loro bella casa di recente acquisto, lui- in canottiera e con un grembiule di tela anch’esso di un bianco di bucato come se fosse un cuoco o un macellaio che dovesse trasportare nella cella frigorifera o sul bancone dei quarti interi di manzo- ne approfittava per mettersi a giocare come un forsennato, e per soldi, era al gerente che piaceva giocare e guardare giocare e anche adesso se ne stava spesso attorno, sogguardando i giocatori da dietro le spalle, cercando di indovinare il risultato della partita dalle carte che vedeva, sogghignando malandrino a errori marchiani che lui certo avrebbe abilmente evitato, lui esperto d’azzardo, e che- ogniqualvolta si accumulava una montagnetta di monetine dalle consumazioni -se le andava subito a giocare comprando schede di gratta e vinci nella tabaccheria che si trovava esattamente dalla parte antistante rispetto all’entrata di quel suo bar sulla via principale e allora se ne usciva dicendo alla moglie “vado a fare qiella pratica che sai”.e la moglie non diceva nulla,si limitava a guardarlo un po’ in tralice, continuando a sogguardare con le pieghe delle labbra tirate all’ingiù e con uno sguardo quasi torvo quei maledetti scaldasedie che occupavano spazi e consumavano praticamente nulla, ogni tanto solo un calicedisecco, e alcuni di loro neppure quello, dei poveracci dei poveracci, lei era abituata a ben altro.
L’uomo che giocava in coppia con l’uomo del moncherino lei l’aveva già visto di sfuggita altre volte, anzi le sembrava che potesse essere lo stesso uomo in bicicletta a cui un giorno d’estate lungo una via assolata aveva chiesto dove si trovasse la biblioteca del paese, e lui aveva cercato di spiegarglielo in qualche modo, e meno male che poi lei aveva incontrato una signora che le aveva dato delle informazioni più esatte, certo quel tale aveva fatto finta di saperlo, magari si era fermato solo per curiosità maschile, e quella volta intanto che lui le stava parlando lei l’aveva osservato, e le era sembrato un uomo ridanciano, e sfuggente, e aveva avuto il tempo anche di notare che la sua mano appoggiata sul manubrio della bicicletta – la mano sinistra esattamente, quel particolare le era rimasto impresso, ricordava tutto con precisione- aveva delle macchie bianche e squamose, e dei lembi ai bordi si sollevavano come se quel tale si fosse grattato in una sorta di raptus fino a penetrare negli strati secondari della pelle.Ma quando lui aveva visto che lei gli guardava la mano subito di punto in bianco le aveva detto che sperava che avesse capito dove fosse la biblioteca, lui se ne doveva scappare via, aveva un impegno di lavoro, e lei allora lo aveva sogguardato ancora di più e si era messa a pensare alla genesi di quella desquamazione, la cui vista le aveva inopinatamente riportato alla mente i processi di muta di specie rettilesche quasi certamente appartenenti alla medesima categoria biologica e genetica degli alligatori, e aveva sentito dei brividi in rutto il suo corpo, come se anche quell’uomo fosse un rettile in muta.
E adesso quello stesso uomo era seduto in diagonale davanti all’uomo dal moncherino, era proprio quel tale il suo compagno di gioco, e era anche l’uomo su cui sembravano concentrarsi gli sguardi e i commenti di tutti i giocatori, lei iniziò a ascoltare,o almeno tentò di farlo, il livello delle voci degli avventori era un brusio di sottofondo ininterrotto, un mugugnare continuo spezzato ogni tanto senza uno schema logico da innalzamenti improvvisi che sembravano avvenire in una sorta di vuoto pneumatico nelle pause morte delle varie fasi di quel gioco tradizionale di carte
L’uomo senza gamba nei momenti di massima tensione si alzava di scatto come a voler dominare gli altri astanti, torreggiando con il tronco e con la sua testa dalla capigliatura folta, e solo un leggero sbilanciamento posturale dalla parte destra mentre appoggiava le braccia sui bordi della sedia per sopperire alla leva dell’arto mancante lo faceva singolarmente lievitare come stesse fluttuando in mari alieni, e faceva il tutto senza nemmeno forzare, forse era passato poco tempo, aveva ancora la sindrome dell’arto fantasma, e lui si comportava come se tutto fosse rimasto immutato, e il suo volto era disteso, e decontratto.
I rimandi delle voci si sovrapponevano uno sull’altro, era difficile per lei distinguere chi parlava, quelle voci avevano tutte la medesima intonazione che poggiava su uno strascichio lento delle lettere finali, quegli uomini usavano spesso termini dialettali, si soffermavano su termini tecnici, su invenzioni gergali inventate lì per lì o magari da millenni a indicare i trucchi usati per indovinare le mosse degli avversari, a contrassegnare l’andamento vittorioso, a sollecitare la reazione irrazionale che avrebbe portato alla sconfitta, del resto tutti sembravano impegnarsi davvero, e le carte scivolavano, e le voci si sovrapponevano, e spesso le mani squamate di quell’uomo volteggiavano a mezz’aria imperiose come per prendere l’abbrivio prima che lui le gettasse, anzi le sbattesse sulla tovaglietta color paglierino, ogni volta sembrava che facesse un atto di forza, era il suo un gesto volitivo, un’azione che segnalava che tutto era vicino alla fine, e che la partita a quel punto l’aveva vinta lui da solo, il suo compagno non valeva nulla, e che poteva poi valere, con quel pantolone floscio e svolazzante che solo in quei momenti topici sembrava svelare il vuoto sottostante, il Carletto era una nullità in tutto, era perfino un handicappato, si era messo a svergognarlo a un certo punto, ma quell’altro non aveva neppure risposto.
Quell’uomo non le piaceva, le pareva un uomo aggressivo, quello, un caporione, lo intuiva, lo sapeva, chissà perchè, la sua era una sensazione sgradevole, la copia carbone di quel disagio senza motivo, quello del loro primo inusitato incontro, di quando – osservando quelle sue mani dove gli strati epiteliali le erano sembrati sottoposti a una erosione massiva di piccole scaglie morte e luccicanti e quasi argentate, delle cellule superficiali in esfoliazione- aveva per attimo pensato che quel signore chissà poi perchè ma non le piaceva, era un uomo untuoso, ecco, anche se aveva un aspetto estremamente rassicurante, al limite dell’anodino, e con un che di felpato: certo era un padre di famiglia, certo, e pure un grande lavoratore, lì, fermo davanti a lei,con un piede appoggiato sull’asfalto ma già pronto a scattare per essere infilato nel pedale di quella sua bicicletta nera perche aveva fretta, lui, lui, aveva degli impegni improrogabili, e poi, e poi, dove era la biblioteca, ma proprio a lui doveva andare a chiederlo, sì, sì, sapeva che da qualche parte la biblioteca c’era, ma, insomma, che se lo facesse spiegare da qualcun altro, lui non c’entrava, lui aveva fretta, ecco stava arrivando una donnetta, eccola là, quella là ma come ma come non la vedeva, era quella tutta in grigio, che chiedesse a lei, certo lo sapeva dove era la biblioteca, quella sapeva sempre tutto.
Mentre se lo stava vedendo sfuggire davanti agli occhi come se del fuoco gli avesse attaccato quei suoi sandali estivi aperti su dei piedi scalzi come se in lui si nascondesse un fratacchione non più appartenente all’ordine, uno spretato ecco, – era sul finire dell’estate, quella prima volta e lui indossava un paio di sandali francescani -lei lo aveva visto, in una specie di allucinazione ottica, o almeno se lo era immaginato- sotto una lampadina smorta in un piccolo tinello pulitissimo e completamente asettico e odorante di lysoformio mentre l’apparecchio televisivo era acceso e rimandava delle vibrazioni azzurognole con l’audio al minimo, e sua moglie( certo la moglie,una qualsiasi moglie c’era, ci doveva essere, sulla sua mano sinistra teneva la vera ) sua moglie era andata a riposare: sotto quella luce giallognola lui invece era lì seduto e si grattava il dorso di quelle sue mani dall’ossatura larga, preso da pruriti malsani a partire da lacerazioni minime e pressocchè invisibili a occhio nudo, quel tale lì a grattarsi, a attendere il riformarsi della pelle, per poi ritornare a rimangiarsela, un uomo con un che di rettilesco ,anche in quel suo atteggiamento felpato, ben presto pronto a trasformarsi in uno slancio violento da proditore
Certo la visione di quell’uomo le aveva lasciato una strana sensazione fin da quella prima volta, ma le sue poteva darsi che fossero delle elucubrazioni fantascientifiche si era poi autoconvinta, il pomeriggio di quel giorno in cui si era imbattuta in lui lei era ancora sotto l’effetto dello spettacolo di quella stessa mattina.
Aprendo la porta di casa, aveva scorto qualcosa di indefinibile a una prima occhiata, un ammasso verdognolo e screziato che pareva fatto di plastica, plastica schiacciata quasi in poltiglia melmosa, e che era lì, sullo zerbino verde dell’entrata, quasi spiaccicato, un viluppo di erbe disseccate e terra impastata trascinate dagli zoccoli estivi usati in campagna, aveva pensato, o forse un giocattolino dalle fattezze di animale del mezozoico, di quelli che piacciono tanto ai bambini, e che qualcuno lascia sempre in giro, e che poi magari era stato riportato fino sull’uscio da uno dei cani, quello a cui piaceva azzannare animaletti vivi e anche oggetti casalinghi, quasi che dovesse di tanto in tanto verificare la durezza e l’affilatezza dei suoi denti da carnivoro.
Lei si era abbassata per raccoglierlo, e subito lo aveva lasciato ricadere, quasi inorridita, no, non era di plastica, era di un materiale scabro ma non artificioso, un qualcosa di biologicamente vivo, un residuo organico e cellulare: era ciò che rimaneva di una lucertola di montagna di grossa taglia, un ligon lo chiamavano nel dialetto di quelle zone, non aveva potuto poi appurare l’esatto suo nome scientifico quando aveva chiesto in giro che animale potesse mai essere, e quando aveva saputo che sì certo si doveva trattare di un ligon con qualcuno che poi aveva detto che poteva anche trattarsi di un ramarro e non c’era motivo di spaventarsi, era innocuo, un grosso lucertolone, lei si era rassicurata.
Da quel suo nome di ligon aveva anche pensato a un leone, i due termini avevano la stessa radice, erano onomatopeici, e infatti la struttura della testa di quel rettile aveva delle scalanature quasi delle creste a incorniciarla come dei barbigli antidiluviani e remoti che riportavano a certe specie dei primordi e anche alla criniera del leone, mentre nel resto del corpo- seppure di taglia massiccia e più grande- le sembrava proprio della stessa famiglia dei rettili,una lucertola del paleolitico che fosse venuta sulla veranda di casa a liberarsi della sua pelle nel periodo della muta: quelli che aveva rinvenuto quella mattina sullo zerbino erano gli scarti — dalla consistenza di carta sgualcita – dei suoi rivestimenti cornei a scaglie, pelle di animale pronta a rompersi sottile nelle sue mani, pelle dalla consistenza rugosa di carta non troppo spessa ma abrasiva, al tatt)(toccandola quando ancora non poteva sapere di che cosa si trattasse) aveva provato freddo e repulsione, e subito aveva gettato quel qualcosa di informe ma ancora vivo, lo aveva gettato nel contenitore del materiale deperibile, da utilizzare come compost sotto nell’orto, nello stesso identico riporto di terra dove la sua vicina di casa aveva gettato pochi giorni avanti i resti ancora sanguinolenti di ciò che restava di un topo di campagna scempiato dal suo gattone fulvo di nome Giuseppino, che era sempre in caccia, squassato da una fame atavica, nonostante i bocconcini che gli dava.
E nel pomeriggio di quello stesso giorno poi, guardando sul dorso di quelle mani sconosciute le crosticine di un colore vermiglio framezzato da un bianco opaco, e dalla forma circolare e sfrangiata, delle simil cicatrici ancora fresche, si era messa a pensare per analogia alla muta di quel discendente in miniatura di sottospecie appartenenti alla stessa categoria dei dinosauri e le erano tornati alla mente quei residui rinsecchiti, quella pelle organica e dismessa:, e si era chiesta se anche quel tipo stesse in un suo misterioso e repulsivo periodo di muta…E era rabbrividita, brividi di freddo in quella calda giornata estiva…
E adesso, e adesso, a distanza di qualche tempo e ancora per un caso fortuito, era lì, nello stesso bar dove lui stava giocando in coppia con l’uomo dalla gamba amputata fino al ginocchio e che chinava il capo a ogni suo rimbrotto, mentre nessun altro in quella stanza piena di un vocio continuo sembrava fare caso a quelle sue mani chiazzate, si vedeva che era uno di loro da tempo immemorabile, nessuno faceva più caso a quelle sue depigmentazioni di certo antiestetiche, forse dopotutto non era una cosa tanto strana: a pensarci bene e razionalmente, non era niente di strano, forse si trattava di residui di una malattia dermatologica in fase di risoluzione, forse era lei che si metteva a elucubrare, partendo da particolari innocui, presa da suggestioni tutte sue.
La partita intanto stava terminando, la gerente del bar per tutto il tempo non aveva fatto altro che trotterellare instancabile da un punto all’altro, lo aveva fatto in un modo un po’ illogico- o almeno a lei era sembrato così- non rispettava affatto l’ordine delle consumazioni. Lo aveva capito seguendola con lo sguardo nel suo andirivieni di volteggiatrice instancabile, la barista serviva per prima le donne, la torma di donne che sembrava conoscere personalmente a una a una, le salutava utilizzando dei diminutivi familiari, in quel paese tutti sembravano avere un soprannnome, un nomignolo, un’identità falsamente familistica, forse non si conoscevano neppure, e quei loro diminutivi servivano come identità appicicaticce, dei post it aleatori per evitare confusioni e per poter risalire ai rispettivi alberi genealogici.
Quelle donne piene di sacchetti si fermavano in quel baretto prima di immettersi nelle vie del mercato, uscendo direttamente sulla piazza antistante il retro decadente, passando attraverso quel bugigattolo dove c’era posto solo per due striminziti tavolini che fronteggiavano un televisore mastodontico i cui canali venivano cambiati in continuazione- per un lungo attimo ogni tanto sembrava che si potessero definitivamente sintonizzare su dei cartoni animati giapponesi lo si poteva indovinare da stridule voci infantilizzate artificiosamente- era il gerente in persona che cambiava compulsivamente i canali, era lui che lì sostava accasciato tra un cliente e l’altro, tutto stravaccato e preso da stanchezze improvvise, il giorno di mercato era il giorno peggiore, e lui era lì fin dall’alba.
Sua moglie, la barista, serviva per prima le donne, e quando si avvicinava al tavolo dei giocatori il suo passo per qualche strano arcano sembrava farsi millimetrico come fosse un’antica gheisha, il passo decelerato di qualcuno dai piedi artritici, infilati a forza in pianelle rasoterra che però sforzavano la struttura del piede, appiattendone le ossa di base, no, non c’era dubbio, quella donna li serviva di malavoglia, alcune volte lei aveva avuto l’impressione che volesse gettare loro addosso quei calici di vino, era riuscita a trattenersi all’ultimo istante, forse non voleva far scandali, o forse temeva le sicure convulsioni isteriche del marito in un caso del genere, lui aveva sempre la mente rivolta al businesse, il bussinesse era il bussinesse, diceva spesso, e oltre quello non c’era nient’altro, o forse solo le donne.
Quegli uomini non avevano dato però segno di essersene accorti, siccome frequentavano quel bar giornalmente certo avevano imparato a conoscerla, la barista, a loro non gliene importava nulla di quel suo atteggiamento scostante, forse l’avevano dovuta accettare come era, una foresta selvatica, probabilmente non era nata lì, o veniva dai monti, da uno di quei paesini abbarbicati sui bricchi, o forse era solo da poco che si comportava in quel modo e la si poteva perdonare, i suoi erano solo i segnali di stanchezza di chi avrebbe desiderato che il locale si svuotasse, doveva anche mettere su il minestrone, il marito glielo aveva gridato sgraziatamente, lui, che era quasi ora, del resto in quel locale agli inizi della loro gestione si serviva anche da mangiare, e tutte cose fatte a mano, loro vi erano entrati dopo decenni passati in germania in un bar-pizzeria, se ne intendevano di locali pubblici, e di gente, sapevano coma trattare, e servire, e andare incontro ai gusti dei clienti e infatti tutti i loro clienti erano sempre stati contenti del loro servizio, e se ne venivano da tutte le parti a mangiare i loro piatti tradizionali.
Quel giorno -era la prima volta che lei era capitata in quel bar, e solo perchè non aveva trovato da sedere in quelli vicini- era stata la stessa barista a farglielo sapere, che loro se ne intendevano di bar e di locali pubblici e di clienti, glielo aveva iniziato a dire quando si era dovuta fermata presso il suo tavolo a prendere l’ordinazione, il solito capuccino cremoso.
“ buongiorno, signora, buongiorno, ha visto quanta gente, eh, oggi è giorno di mercato, eh ma noi siamo abituati, alla gente, ormai siamo qui da tanto, ma prima avevamo un locale in germania, cucinavamo anche, sa , eravamo conosciuti e venivano in molti, e non solo italiani.. eravamo a k.. conosce,, è un paese importante e grosso eh quanto abbiamo lavorato, poi siamo dovuti ritornare qui per via della figlia, sa ..sa, le dico questo perchè non mi sembra di averla mai vista…lei da dove viene…no, non la conosco, non la conosco, ma da dove viene, è di qui..non l’ho mai vista prima…ehi, vengo subito, vengo subito, ho sentito..!”
E lei non aveva risposto, non aveva potuto rispondere, la barista se ne era andata senza aspettare la sua risposta, la stavano chiamando presso quel suo bancone sovraccarico di prodotti e di merendine,dappertutto per l’intera lunghezza dei lati e anche sul contenitore plastificato delle merendine confezionate- di fresche e artigianali non ce ne erano-dappertutto erano appiccicati volantini pubblicitari di ogni tipo, alcuni stampati, altri scritti a mano, erano quasi tutti inviti comunali a qualche festa tipica, del paese o della provincia, un affastellamento caotico che affaticava lo sguardo che per caso vi si fosse posato, certo con un po’ di buona volontà alla fine ci si fissava su uno di quei volantini, ce ne era in particolare che spiccava su tutti, uno scritto con dei caratteri più in rilievo, e scuri, quello che invitava a una gara speciale che prevedeva un fucile come premio in due sezioni distinte di gare: lei, appena entrata, ne era rimasta colpita, aveva iniziato a dargli una scorsa perchè spiccava sugli altri per via dei suoi caratteri tipografici marcati, e aveva deciso poi di dargli non si sa mai una seconda controllata quando sarebbe dovuta tornare al bancone per pagare.
Siccome le sembrava di essersene rimasta lì fin troppo si era messa a cercare i soldi della sua consumazione, in quel momentsembrava che quegli uomini stessero per iniziare un’altra partita, l’uomo con l’arto amputato si era riseduto all’identico posto di prima, dopo essersene andato per un po’ in giro, forse per sgranchirsi e non anchilosare troppo l’arto già debole e sofferente. Quello di lui le era sembrato un circolo vizioso, una specie di gioco dell’oca, un aborto di movimento più che un vero e proprio movimento, l’uomo si era limitato infatti a andarsene fin sulla soglia di quell’altro stanzino, quello striminzito, quello che serviva da passaggio e da ripostiglio e da superficie di disbrigo: lì le pareti avevano l’aspetto più scrostato, e tutto fumigava perchè lateralmente ci si poteva immettere in uno spazio ancora più piccolo, quel buchetto che la barista osava chiamare cucina, in realtà un cucinino da gioco delle bambole e dalla metratura a malapena sufficiente per una specie di fornello a due fuochi, con dei ripiani per il disbrigo corrente di piccole faccende definibili come domestiche.
Era in quello spazio claustrofico e senza finestre( non c’erano neppure aperture che permettessero la fuoriuscita dei fumi della cottura ) che marito e moglie mangiavano a turno, visto che praticamente il bar non aveva orari di chiusura, la loro era una corvee vera e propria non essendoci ricambi, e chi per un attimo si affacciava in quello spazio provava il desiderio di ritornare subito indietro nell’altra stanza dove c’era il bancone, oppure di uscirsene sulla piazza a respirare, tutto era così stretto e fumigante, una specie di antro.
A quel punto, quando l’uomo menomato si era riseduto di nuovo- e lo aveva fatto con una specie di tonfo, quella volta non aveva calcolato bene la distanza dal ripiano della sedia – c’era stato una specie di scalpiccio, e uno spostamento di sedie, e tutti si erano riseduti, ognuno nell’identica posizione di poco prima, e le coppie dei giocatori erano rimaste immutate, come se tutto seguisse le modalità di un rito ripetuto fino all’ossessione, perfino le parole e gli atteggiamenti parevano seguire un medesimo usurato copione, solo i partecipanti non se ne accorgevano.
“ ehilà, ehi la, dico a te, sì a te, a te, Carletto, ueilà, stavolta gioca meglio, se no non gioco più con te, non vali nulla, proprio nulla, sì…ahh ahh…lo sapete tutti, ve ne siete accorti, che quello non vale nulla, niente sa fare, lo sapete tutti no, è inutile che ve lo dica, no, non è certo come me il Carletto, neanche alle carte vince, vince solo quando gioca con me…”
Era l’uomo sofferente di chissà quale alterazione dermatologica, l’uomo dal viscidume rettilesco perfino in quel suo sorriso falso e un po’storto che inframmezzava sornione qua e là, mentre con un certo suo sguardo di sbieco che girava su tutti gli avventori senza fermarsi mai su qualcuno in particolare- un suo sguardo freddo e come di disprezzo- c’era un barbaglio crudele, una invertebrata lucetta maligna, e lei – lì in quel suo angolino defilato che le permetteva solamente una visione non diretta secondo un’immaginaria linea diagonale che ambiguamente veniva a unirli casualmente – anche lei lo intercettava quel suo sguardo trafiggente e nel contempo sfuggente, sembrava che a quell’uomo non gli piacesse guardare direttamente negli occhi i suoi interlocutori, come certe categorie di animali pronti a aggredire se vengono fissati.
Sia pure obliquamente, un residuo, una scoria di quei suoi sguardi circolari andavano a colpirla spesso, come se gli sguardi e le parole di quell’uomo fossero in realtà indirizzati specificatamente a lei sola, che non lo conosceva neppure, anche se per ventura si era imbattuta in quel tale per via di quella domanda su dove fosse ubicata la biblioteca, aveva dovuto pur rivolgerla a qualcuno, e in quel momento su quella via periferica stava passando proprio quell’uomo, con quella sua bicicletta di antiquato modello e tinteggiata di un nero che la faceva parere fin elegante e lei allora non aveva potuto non fissare il dorso biancastro e eroso di quelle sue mani che si appoggiavano con forza sui manubri, quasi artigliandoli.
“ Ehi, ehilà, hai capito o no che stavolta devi stare più attento, questa è la bella, l’ultima partita, non voglio mica rischiare di perdere, non mi va, io vinco sempre, sempre, con le donne poi.. non parliamene ..ehila, questa ve la devo raccontare subito.. è troppo…ah, ah, è troppo… ve la devo dire subito…non posso aspettare.no..
Ve la ricordate quella che ogni tanto veniva qui, sì…quella…quel morone che se ne stava sempre lì. lì in quell’angolino. Quello in fondo, dietro quel divisorio o come si chiama quella specie di separè insomma lì, dove adesso c’è quella signora…..buon giorno, buon giorno, signora, è nuova qui…non l’abbiamo mai vista ma lei non è di queste parti, è la prima volta che capita qui buongiorno eh..
insomma dai, sapete di chi parlo, quel morone là che non parlava con nessuno e che diceva buongiorno solo alla giovanna, e nessuno la conosceva..
Ah, certo…mi pare che la ricordate benissimo, non fate finta di non capire…ne avevamo anche parlato un paio di volte..
Sì, ebbene, sapete…qualche giorno fa… insomma sì, sì, me la sono fatta..e
insomma lo so, lo so che pare strano ma dovete crederci.. è stato così…ma . Me la sono fatta, era appena uscita da qui e l’ho vista che se ne stava andando al deposito degli autobus, lì, sul piazzale della vecchia stazioncina in disuso, sapete mi ha detto che abita in provincia da poco ..insomma io stavo andando al bar della stazione, dell’ex-stazione, avrei dovuto partecipare a una gara di carte, in palio c’era un bel cesto di salumi..ma quando l’ho vista… ho cambiato idea..
Mi sembrava incerta… titubante..mi sono offerto di darle un passaggio, sapevo che il primo bus ci sarebbe stato solo dopo un’ora, e lei mi sembrava avere una certa fretta, mi è venuto in mente appena l’ho vista, che avrei potuto tentare insomma,dai, su, era da tanto che ci pensavo su, e mi sono fatto avanti…, quel morone mi aveva sempre attizzato, e anche voi- me l’avete detto più di una volta,che anche voi ve la sareste fatta volentieri, dai, su, , ne avevamo fin parlato un giorno…Sì, certo, sembrava un tipo sulle sue, si dava delle arie…quella … oh, delle arie : ma io non ci ho mai creduto a quelle sue arie…, e sapevo….
E infatti…quel giorno lì, avevo appena portato a casa mia moglie dopo che ero andata a prenderla alla fine del turno del suo lavoro, e lei mi aveva lasciato per sbaglio sul sedile posteriore della macchina un pacchetto pieno di confezioni di calze nere di marca e di qualche altro gadget…
sapete no, dei prodotti della fabbrica x dove lavora..doni che si fanno ai dipendenti così ogni tanto ,e che lei si è dimenticata e allora mi è venuto in mente che avrei potuto offrirli al morone..e, e ..mi sono buttato.
sì, all’inizio…uhm..insomma non aveva l’aria di voler intendere che cosa volevo…ma poi.. l’ho incartata un po’ su, ci so fare lo sapete, e alla fine ho preso una scorciatoia…le ho detto che era solo per farle vedere dei bei paesaggi prima di riaccompagnarla a casa sua lei avrebbe voluto scendere e aveva messo la mano sulla maniglia.. l’ho portata in una zona un po’isolata, non c’era nessuno in giro.. l’ultima casa isolata l’avevamo passata da un pezzo.. eravamo arrivati quasi in cima.. avete capito, no…e lei non conosceva quella zona, sapete no, sopra la provinciale, sul tragitto vecchio di una volta…quello che seguiva la linea parallela del trenino che costeggiava il fiume
quel giorno mi piaceva troppo, aveva su una gonna rossa, una bella gonna rossa che le strusciava sulle cosce…ho cominciato a dirle che era un bel morone con quei suoi capelli neri .. e quella bella gonna rossa… ho fermato la macchina anche se lei non voleva e si guardava intorno spaurita.. e poi.. le ho messo le mani sulle cosce e lei me le ha tolte, mi ha graffiato tutto sul dorso…le ha spostate, le spostava e io continuavo a rimettergliele e ogni volta cercava di spostarle e usava anche le unghie ,non voleva …poi alla fine è scesa.
E allora io ho tolto dal portabagagli una specie di materassino, piccolo, un materassino da lettino singolo, era quello per gli ospiti che tenevamo in casa Mia moglie mi aveva detto che ormai era inusabile e che avrei dovuto gettarlo nella discarica, e invece quel giorno mi è servito.eccome quasi quasi non lo voglio più gettare spero che mia moglie non se ne accorga che è ancora nel mio bagagliaio, ma forse lo butterò via stasera sapete domani dobbiamo andare a fare spesa grande e non vorrei che mia moglie se ne accorgesse … .. ho steso il materassino e me la sono trascinata giù e poi me la sono tenuta vicina…sapete, le ho raccontate tante cose…e poi l’ho convinta..e abbiamo fatto l’amore acquattati sotto dei cespugli, su quel materassino sfondato un rottame…ma è servito lo stesso, ah..se è servito..intorno c’era come una radura, lei si è voluta però tenere su la sua gonna rossa…del resto era nuda…uhhmm che donna, che donna!,
Alla fine ci siamo messi a ridere…lei però non aveva detto nemmeno una parola prima anche lei quando tutto è finito si è messa a ridere:ci siamo accorti che per tutto quel tempo una grossa mucca se ne era stata lì, vicinissima a dove eravamo noi, come se ci volesse guardare, non c’era nessuno in giro, tranne quella vacca.. . Era un posto che andava bene per noi, non c’era nessuno da quelle parti..solo noi e quella mucca..
e adesso adesso .. ricordatevi quello che vi ho detto, il morone si può fare, si può fare, eccome se si può.. voi dicevate di no, ehh io l’ho fatta .. le ho dato quelle calze nere, vorrei che le mettesse su, glielo dirò se la rivedrò mi piacerebbe vederla con le calze nere regalate a mia moglie dai capi della fabbrica..sapete a lei le ho detto che le buttate per errore in discarica, mi sono confuso e ho preso su tutto.. e lei ci ha creduto..in fondo si accontenta di poco..chi l’avrebbe mai detto.. la vacca…la vacca uhmm le vacche quel giorno..”
Tutti gli uomini attorno- si era avvicinato nel frattempo anche il gestore, i cartoni animati giapponesi erano terminati, non c’era più niente di interessante alla televisione, le sue giocate alla tabaccheria non gli avevano fruttato niente, e il pranzo non era ancora pronto, e a lui quegli argomenti interessavano, eccome, e allora se ne era venuto anche lui nello stanzone principale -si erano messi a ridere, dopo avere ascoltato e essere intervenuti a spezzare le parole di quell’uomo con ululati, delle specie di uhmmuhmm, delle grida smozzicate di giubilo come se fossero davanti a un ring virtuale dove si stava svolgendo una lotta animalesca,forse una gara di galli, uhmmuhmm come se stessero leccando qualcosa di gustoso
Durante il discorso si erano dati anche delle pacche sulle spalle, sembravano su di giri, elettrizzati da certe immagini lubriche, certo si stavano immaginando la donna tutta nuda con solo addosso quella stessa gonna rossa con cui l’avevano vista spesso andare in giro, quel morone che vedevano in quei loro pensieri con sul petto nudo e bianco entrambe le mani del loro compagno di gioco, che lei aveva graffiato e graffiato…e poi, e poi, tutti e due sul materassino da buttare, stesi sotto lo sguardo impassibile della mucca, forse se quei due si fossero accorti subito di quella presenza se ne sarebbero andati a gambe levate: ma invece no, no erano impegnati loro..che vacca.. che vacca.. quel morone eh,chi l’avrebbe detto, sempre lì, dietro il divisorio, stretta in quell’angolino con poca luce e tutta pensierosa, che non dava confidenza a nessuno..ah le donne, che porche, erano veramente tutte uguali, tutte uguali.si sapeva del resto, loro lo sapevano da tempo che non ci si poteva fidare di nessuna di loro.. tutte porche, tutte, bastava poco, in giro dicevano che perfino la tabaccaia, la figlia della tabaccaia, quel donnone la dava via,chi l’avrebbe mai detto… tutte , bastava prenderle con le buone, dar loro un contentino, ahh ahh, se quella si fosse ripresentata..ah avrebbero saputo cosa fare.. era da un po’ che non la si vedeva, l’avrebbero guardata in un altro modo….certo che perfino la figlia della tabaccaia uhmmm quella poi..questa poi…ma il mondo come è mai fatto… ma certo era come diceva il Mario, lui era un uomo che non mentiva.. e con le donne ci sapeva a fare, e sapeva quel diceva, quel che diceva era la verità. E le donne le donne ci stavano tutte.
Mentre si avvicinava al bancone per pagare, cercò di circumnavigare alla larga la superficie dove era impiantato il tavolino dei giocatori, ma , proprio perchè le era venuta addosso una fretta incontrollabile – era rimasta in quel bar davvero troppo, e poi, con tutte quelle specie di chiacchierume crudo che si era dovuta sorbire in sovrappiù come degna conclusione di quella mattinata stancante si stava sentendo addosso dei segni inconfondibili, il prodromo di un attacco di claustrofobia, cosa che certo avrebbe dovuto aspettarsi in un ambiente di quella tipologia- quasi inciampò nel bastone intagliato dell’uomo dal moncherino, che sporgeva troppo verso l’esterno, appoggiato malamente sul bordo.
Il viso le si era arrossato, e si sentiva ardere, in fretta e furia e senza rispondere ai saluti di quei tali” ehi, arrivederci, signora, verrà ancora,venga venga, noi speriamo di rivederla, buongiorno, ehh” andò a pagare, e poi chiese alla barista- che di nuovo le stava chiedendo dove venisse, perchè lei era sicura che lei lì non c’era mai stata e lei era molto fisiognomica, sa, con il lavoro che faceva- se poteva farle ricopiare sul suo blocchetto quel volantino scritto in caratteri più appariscenti degli altri, le interessava, stava facendo delle ricerche antropologiche e storiche su quella zona in particolare, e allora la barista le disse di prenderlo pure e di portarselo a casa, se le interessava, tanto lei ne aveva un mucchio.
Quella sera- mentre stava facendo delle ricerche su delle specie di animali che si stavano estinguendo in quei territori che pure parevano faunisticamente integri- cercando una penna per appuntarsi alcune definizioni scientifiche per lei nuove, trovò quel volantino , e si mise a leggerlo, magari poteva servirle per quella documentazione progressiva che si sarebbe dovuta basare su reperti e articoli di qualsiasi origine, più erano diversi, più le sarebbero serviti per andare in fondo alla ricerca che si era prefissa.
E lesse: per il giorno xxx del mese y nella località Z si indice la gara di tiro al Cinghiale corrente ( e questi caratteri erano stampati in grassetto e a caratteri cubitali) , per la categoria a CANNA LISCIA il premio al primo classificato sarà una CARABINa, per la categoria FUCILI a CANNA RIGATA il premio al primo classificato sarà un fucile”
Letto il biglietto, appallottolò il volantino, e lo schiacciò poi sotto i piedi nevroticamente, e prima di andarsene a letto le si venne a formare nella mente stanca un accostamento analogico, che le sembrò- a una razionalizzazione meno oscura e fatta a mente chiara il mattino dopo-i l frutto residuale di un pensiero non tanto inconscio poi, una specie di ibridazione non solo concettuale, un venire a galla di un pensiero verminoso e non tanto pregrino: ricordò che in america – e se ne era parlato su parecchi giornali digitalizzati- era in voga un giochino che aveva avuto parecchio successo: previo abbonamento telematico a pagamento, si poteva partecipare on-line a una gara – naturalmente con armi virtuali- che metteva nel mirino un’immagine di femmina che correva a perdifiato totalmente nuda in un bosco, lei sapeva che doveva correre, correre come una dannata, correre per salvarsi, come fosse un oggetto di gomma vincibile in un baraccone da luna-park, una bambolina meccanica a cui sparacchiare in un tiro a segno, un piccolo e lucente pesciolino rosso da mettere in una boccia di vetro dopo essere stato preso all’amo.
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una dovizia di particolari impressionante
un sorriso
grazie al “paziente” lettore mauri53, in effetti concordo con la sua osservazione:una mole descrittiva impressionante!!:-))( auspico che “impressioni” il lettore nel senso che in certo modo gli procuri un sottile senso di disagio, io vorrei che il lettore non sia in posizione troppo allentata e pacifica quando legge miei scritti:-((
grazie un saluto