Era inverno, ancora, un altro rigido plumbeo inverno ,e giorni illividiti si succedevano indistinti attorcigliandosi come contorti in un ammasso informe, stranamente similari alla poltiglia scivolosa che ben presto si sarebbe indurita su ogni limitata superficie lasciata libera dalle precedenti nevicate.
I due grossi felini neri cercavano di starsene vicini , stretti in quell’algore che subito- dopo una breve illusoria fase di disgelo-aveva ripreso con più forza a imperversare, accompagnata come era quella caduta incessante di grosse falde nevose – da diaccie folate di vento che pareva provenissero dalle zone artiche: in alcuni momenti particolari della giornata. per via dell’angolo molto appartato e estremo di quella zona rurale pressoché disabitata, tutto subiva un aspetto di durezza ambientale,ai limiti dell’insostenibile,era un paesaggio brullo, quella piccola frazione montagnosa pareva un costone di pietra accatastato malamente tra poggi disposti a corona, umidi veli nebbiosi salivano all’improvviso dal terreno come esalazioni venefiche essudate da crepe arcaiche e le poche tracce di vita qua e là visibili erano subitaneamente occultate dalla sempiterna oscurità di avorio anticato di un cielo pesante e sovraccarico-
Era da due giorni ormai che aveva smesso di cercare il suo vecchio cane malandato, scomparso misteriosamente da una settimana, non era più tornato a casa dopo che una mattina, volendo ripulire la stalla dove lo teneva al riparo da più di dieci giorni ,lo aveva lasciato libero di girare un po’ in paese, di sentieri percorribili attorno
a casa ce ne erano del resto si era autorassicurata quel giorno- due li aveva fatti lei , uno fino alla recinzione che delimitava i confini della sua proprietà ( e questo lo aveva fatto al meglio scavando nella neve compatta e accumulandola poi ai lati ) e un altro più lungo (che si incuneava tra uno spiazzo oblungo sostenuto da un muraglione a picco .un impervio dislivello artificiale in prossimità di alcuni alti gradoni asimmetrici riparati da una volta di pietra e due dissestati tratturi sassosi in ripida discesa e portava poi-contornato da abitazioni vuote -fino alla stretta via principale asfaltata) da lei segnato proprio il giorno prima con il suo stesso camminare nel marasma incontaminato e scivoloso su di un fondo già interamente di ghiaccio.
“questo è il giorno adatto ..avrà bisogno di un po’ d’aria …è meglio che lo faccia uscire in questo momento sembra che per un po’ non abbia intenzione di riprendere a nevicare meno male dai facciamolo uscire ne approfitterò dai dai… “
E lo aveva praticamente accompagnato fuori,spingendolo,da alcuni mesi aveva perso la vista, e il lungo periodo di reclusione al chiuso lo aveva reso più incerto nei movimenti, sulla soglia per un attimo aveva girato il muso verso l’interno, come abbarbagliato dal lucore insostenibile del paesaggio reso irreale e fermo da quel bianco
riverberante e metallico.
Subito si era messa a trafficare nella vecchia stalla risistemata dai muratori serbi, che secondo la sua volontà avevano lasciato immutata nel complesso quella sua struttura in pietra massiccia ripulendone però al meglio le pareti dalle raffazzonate rabberciature di cemento e appianando con l’innesto di altre losanghe massicce il pavimento in ambedue le sue parti laterali, dato che si presentava grezzo e polveroso- di terra battuta- nella sua parte centrale scanalata- per il refluo di acque e delle deiezioni delle bestie lì allevate-rispetto ai due lati, uno dei quali lei lo aveva fin da piccola chiamato “la mangiatoia” per via di quel sopralzo inchiavardato-a mo’ di gradinata e delimitato da un’ asse di quercia ormai smangiata a metà e sopra la quale faceva ancora bella mostra arrugginito un anello di notevoli dimensioni di quelli a cui un tempo si attaccavano i bovini.
A questo stesso anello molto spesso era stato lo stesso suo padre a tenere legata parecchio tempo addietro- nei suoi periodi di calore- la cagnetta randagia – sbucata fuori allupata chissà da quale mai frazioncina sperduta lì attorno, tra quelle innumerevoli sparpagliate come schegge attorte, esigui frammenti deflagrati in epoche ancestrali -e a casaccio-in quel vasto informe territorio boscoso e irto, di vallette amene e contrafforti aridi che nascondevano smottamenti e calanchi in caduta precipitosa, intervallati da ampi campi inselvatichiti. Nei giorni precedenti anche lei aveva utilizzato quel grosso anello per tenere il vecchio malandato cane in sicurezza nel nuovo ambiente( almeno inizialmente per abituarlo alla diversa sistemazione aveva tentato anche di tenerselo in salotto ma sembrava diventato come folle anzi colpito da una improvvisa forma spasmodica che gli aveva quasi reso arcuato e deviato ogni singolo o arto oltreche che ogni minimo movimento. spaventato , inerme e spaventato nel suo tranquillo salotto borghese , un fenomeno che la conturbava impedendole di prendere sonno, in malsana inane attesa di avvenimenti funesti che certo si sarebbero prodotti in una di quelle notti)e attaccandovi una catena molto lunga che gli permettesse di muoversi pressoché per l’intera superficie della ex-stalla- dopotutto il vecchio Sgrifino era l’ultimo rimasto della discendenza di quella sua madre Giuseppina- nerissima con un allentato ventre bianco e più grande di fattezze di tutti i suoi figli-progenitrice di una multipla imbastardita disseminazione , in Sgrifino esattamente del padre Tiberio – un bel cane che si sarebbe potuto definire appartenente a una sotto classedella razza dei pastori bergamaschi e di cui si poteva riconoscere qualcosa solo nei suoi occhi dal taglio molto allungato – dorati e molto espressivi- e che però si andavano opacizzando biancastri e ridotti a una stretta fessura tra le palpebre che parevano anch’esse smottare molli senza più sostegno…
Lavorò per circa un’ora in quello stanzone dal soffitto basso e intervallato da tre grosse travi principali e da una griglia di altre di spessore inferiore che sia pure potessero considerarsi ancora in buono stato contribuivano a procurarle una disagevole sensazione di oppressione anzi più esattamente di accerchiamento malsano, dato che – visto il non diminuito livello di essudazione polverosa che scaturiva immediatamente anche dai più leggeri colpetti di scopa ( lei in realtà aveva pensato che un lavoro di risistemazione fatto a regola d’arte avrebbe dovuto prevedere una idropulitura, una totale eliminazione di questo problema) le sembrava che microparticelle esalassero da quel l’impiantito, da tutte quelle sconnessure tra pietra e pietra, da ogni anfratto sia pure occluso , da tutti quegli elementi massivi inerti e terribilmente porosi: evaporava sì evaporava da quella struttura stolida di pietre di informi piloni storti e muretti di mattoni grezzi (a sostenere travi che lei aveva la ferma intenzione di riportare all’antico splendore) evaporava anzi tracimava in modo subliminale un’aria di inesausto corrompimento millesimale, non poteva starsene dentro troppo a lungo, le pareva di avere a che fare con un invisibile roteare di polveri sottili che le penetravano in ogni poro. Stranamente le parve che la parte più rappresentativa. più simbolica della intera abitazione fosse proprio quello spazio pietroso, asfittico, che anche i vecchi proprietari avevano cercato vanamente di inchiavardare, di sostenere attraverso quelle pietre di spessore inusitato che contornavano l’architrave possente dell’entrata , tra quelle stranissime spezzate angolature – sull’estremo angolo sinistro vi era il vano murato di una porta di comunicazione- necessitate dai limiti proprietari di parenti che avevano suddiviso- forse seguendo procedure non troppo congruenti- un’ antica originaria abitazione di consanguinei.
Con delle vecchie coperte cercò di approntare un giaciglio comodo e in posizione defilata rispetto a ogni manufatto pesante o spigoloso,ormai temeva gli allucinati scontri notturni del cane reso folle( questo era ciò che lei aveva cominciato a pensare dopo la furia distruttiva di cui aveva dato prova nel salotto) da quella sua accelerata condizione di cecità e di progressivo anchilosamento artritico, condizioni morbose che sempre più spesso lo obbligavano a gemere : e il suo era un gemere stridulo e anch’esso scomposto, le parevano grida umanoidi su di un fondo di parossistico rabbrividimento generale, quasi l’universo tutto fosse contrassegnato da un demente ululato perenne udibile solo in specifiche aree temporali, in indefinibili cesure spaziali simili a buche cavernose, in una sorta di vacuum magnetizzato che rendesse meccanicistico ogni possibile determinarsi di fatti e comportamenti, e ognuno di essi unicamente sotto l’alea del torbido, dell’accavallarsi ambiguo e crudele anche dei minimi e involontari gesti biologici legati alla pura sopravvivenza.
Prima di uscirsene all’aperto– avrebbe finalmente respirato un po’di aria pura- raccolse da terra uno dei tanti volumi ( ve ne erano accatastati parecchi anche nel vano della porta di comunicazione poi murata ) eredità naturale della famiglia che originariamente vi aveva dimorato, lei ne stava facendo la cernita, anche se ormai era del tutto convinta che in quei cartoni semisbrindellati non avrebbe trovato che tomi ponderosi che discettavano monotoni e algidi di vite di santi e di rigide regolamentazioni a carattere moraleggiante, oltre a quei tradizionali innumerevoli messali dalla solita copertina nera e dalle friabili pagine filigranate d’oro smuovendo le quali fuoriuscivano santini di martiri e di preti o familiari defunti da molto, fin dall’inizio del secolo precedente.
Rimise quella specie di brogliaccio sopra gli altri volumi-ah, ah …quella si poteva considerare la consequenziale eredità residuale della intera dinastia poi disseminata e frantumata,sospirò…un patrimonio spirituale dalla luttuosità cannibalica e onnivora, alla dura prova dei fatti dimostratosi invertebrato al pari di una intelaiatura posticcia….uhmm… uhmm residuo di residui uhm .. bah Ma perchè sempre questi pensieri strani, non ortodossi … da ogni dove da ogni pertugio pensieri come topi portatori di infezioni, come punte di spillo a torturarla….ma perché mai? Perché proprio a lei solo a lei bah quei libri – e quelle foto- appartenenti alla figlia del proprietario della trancia,forse potevano dirle qualcosa … c’era da sperarlo forse tracce… tracce minimali residui da decifrare…forse solo …non sapeva non sapeva
A quel punto, smise le sue elucubrazioni,la campana aveva scoccato le dodici,doveva andare a riprendere il cane che senza dubbio se ne era scappato dalla sua seconda padrona, la anziana vedova da cui spesso si rifugiava e che abitava al limite opposto della frazione.
Dopo avere oltrepassato l’angolo che immetteva nel prato dei vicini dove tutto era rimasto immutato dopo la grande nevicata- qui sprofondò avanzando a fatica e tracciando uno spazio con i suoi stivali da uomo e rimanendo per un po’ invischiata dai rami appesantiti fino a terra del grande nocciolo- camminò fino ai quattro ampi gradoni di differente altezza che dei cugini di secondo grado avevano fatto costruire arbitrariamente sotto la volta per impedire l’accesso se non a piedi- e poi di nuovo rischiò di scivolare sui due tratturi che curvandosi sconnessi portavano alla zona asfaltata.
Tutt’attorno era un tipico paesaggio invernale, nella sua brullezza, nei profili ghiacciati dei pendii più elevati, nelle chiazze di terreno fangoso dove un po’di neve aveva iniziato a sciogliersi lenta.
In quella giornata serena e azzurra l’insieme di linee aguzze e frastagliate –intervallate dallo spessore grigiastro delle vecchie case in pietra ristrutturate -accentuava una impressione generale di inerzialità anemica – come svuotata dal gelo-e nel contempo possente, nel livido violaceo di ombre perfette a stagliarsi nelle parti più in ombra e completamente deserte.
Accanto all’oratorio che dominava con la sua inusitata struttura geometrica a dodecaedro l’imbocco di tre segmenti stradali – uno dei quali a forte pendenza e ricoperto di una laminatura scintillante di ghiaccio-si accorse che le quattro vasche di acqua sorgiva si erano trasformate in bare immobili, monolitiche e come ridotte a squadrati blocchi dalle venature grigiastre dato il fondo limaccioso, nessuno più le ripuliva neppure nel periodo estivo. E da tutti e due gli orti che contornavano quel lato solo sporadici gruppi rappresi di irrigiditi filamenti di erbe -stranamente ancora verdi come acide alghe -e neri alberi nudi sbucavano dalle superfici totalmente innevate in cui cominciavano a visualizzarsi linee sottili e zigzaganti a partire dalla abbacinante lattea superficie leggera che nascondeva subdola lo spessore a più strati lamellari del ghiaccio sottostante. “ah li adesso si potrebbe non sprofondare camminandoci sopra … si potrebbe addirittura tentare di sciare oltretutto è tutto in discesa certo lo si potrebbe fare prima che tutto cominci a sciogliersi, a liquefarsi ..si ridurrà a un vero pantano allo scioglimento , solo fango e morchia …mah bisognerà aspettare “
Alla leggera curva di incrocio rimase per un po’ sulla sua destra :non appena oltrepassato lo spiazzo che serviva a certi piccoli proprietari a tumulare in autunno certe pire mastodontiche di legname in attesa di essere tagliato – e che ora era riempito da un arrugginito cassone di lamiera azzurro cielo a ruote in su- subito sarebbe arrivata all’ abitazione circondata da un pendente giardinetto delimitato da una staccionata bianca, all’interno del quale il suo vecchio cane spesso trovava riparo su un giaciglio di fortuna sul retro- esattamente al di sotto di una balconata di legno fatiscente- costituito da una cassetta da fruttivendolo a larghe doghe come ormai non se ne trovavano più , una cassetta accostata al muro e racchiusa su due suoi lati da tavolame di fortuna inchiodato a farne una strampalata cuccia di emergenza nei numerosi periodi in cui il cane rifuggiva dal volersene tornare nella casa padronale.
La casa tinteggiata di un bianco ormai corroso e a un unico piano rialzato- che si inarcava al di sopra di un sottostante scantinato di grande superficie che seguiva le contorsioni di un terreno in improvvisa pendenza tranne un limitato spazio piatto – pareva quel giorno stingere nel resto del panorama altrettanto bianco, e come velato.
In tutto quel biancore fluorescente e immoto si avvide che il cancelletto della staccionata a quell’ora si presentava del tutto aperto, praticamente non veniva mai chiuso quando nevicava o ghiacciava, per tenere libero e praticabile il corto vialetto lastricato che portava ai tre gradini e al piccolo pianerottolo ringhierato dove-a ulteriore protezione della porta d’entrata –era stato inchiavardato un levigato pannello massiccio chiudibile a chiavistello, tutti manufatti opera del primo proprietario che aveva voluto costruire -una volta ritornato dagli Stati Uniti e intendendosene di falegnameria- parecchi elementi a intarsio, molte delle eleganti rifiniture moderniste -come certe finestre esagonali a doppi vetri-di quella costruzione: da ex-emigrante molto nostalgico aveva trapiantato su quel ristretto appezzamento collinare una versione – ingentilita fino alla glassa anche in ragione delle dimensioni ridotte- di certi ranch edificati dagli allevatori negli immensi spazi dell’america rurale, e adesso che non c’era più nessuno a fare manutenzione, l’insieme – tra abitazione e un praticello rado sul davanti e laterali strisce oblunghe dove l’anziana vedova nella bella stagione curava con testardaggine perfino maniacale una infinità di ortaggi e verdure- aveva assunto un aspetto di decadenza appena appena rappezzata in qualche malrifinito modo,anch’esso stento e rabberciato.
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