All’interno della interessante rubrica “UNA VITA IN SCRITTURA” promossa dal sito “LIMINAMUNDI”
dedicato a tutte le branche della produzione artistica mi è stata offerta la possibilità di dare un mio personale contributo , che troverete a questo specifico link:
https://liminamundi.com/2022/10/12/una-vita-in-scrittura-dominica-villa-balbinot/
Ringraziando molto tutti i collaboratori di questo ricco sito, invito i miei personali lettori a
andarlo a vedere)
Una vita in scrittura: Dominica Villa Balbinot
12 mercoledìOtt 2022

Trovo questa rubrica interessante, a partire dalla stessa titolazione. Ma per chi si impegna a rispondere in prima persona, per darne una visione personale, quanto più rappresentativa del proprio sentire, si evidenzia subito che affrontare tale impegno non è cosa da poco.
Dopo averci pensato un po’ proverò a definire come per me si pongono i due termini della stessa titolazione, una vita in scrittura, io ormai ne sono consapevole pienamente nel mio specifico caso: si potrebbero unificare i due termini intendendo con questo che per ciò che si è andando verificando individualmente per me nel tempo e per le modalità con cui il tutto si è venuto a determinare in definitiva la scrittura e la letteratura sono un tutt’uno, si identificano con la mia vita.
Da iniziali studi e onnivore letture di ogni tipo (ma anche guardandomi attorno e osservando il mondo e le persone, studiando il terreno in ogni ambito, anche quello più improbo, esperienzalmente) subito mi è parso evidente che davvero l’unico modo riuscire a dare sostanza e significato alla cosiddetta realtà[termine ormai genericizzato al massimo, che viene sempre più immiserito banalizzato forse per togliere un senso del tragico che invece imperterrito e imperituro continua a sussistere] è farla diventare più reale dello stesso reale in un certo senso farla come solo i massimi scrittori di ogni epoca riescono a fare, cioè riportarla in vita reinventandola pur lasciandola intatta nella sostanza come invece non riescono la stessa cronaca minuziosa, il giornalismo più attento, le varie resocontazioni storiche e sociali che anche se fatte puntualmente risultano sempre mancanti di un quid indefinito e potente e che solo riesce a trasmettere in modo misterioso e non razionale quello che definirei il “tremendum” sottostante di ogni avvenimento intendendo con questo la smisurata complessità (in alcuni casi anche un che di vitreo scintillante magmatico e perfino allucinatorio oltre che brutale e crudo) della condizione umana, della vita nel suo alternarsi di caos coincidenze necessità inestirpabili che certo non solo visibili se la descrizione rimane realizzata burocraticamente, riportata secondo i valori dominanti che più o meno inavvertitamente possono influenzare il modo di sentire di vedere e sentire.
Io per tutte queste motivazioni sono attratta potentemente da ogni tipo di arte, è solo nell’espressione artistica che, senza assolutamente cadere in un estetismo vacuo e riduttivo, si può vedere anche la stessa pervasiva e innominabile morte che sempre agisce ( e perfino i più sordidi e miserabili avvenimenti della vita quotidiana cui non prestiamo alcuna attenzione neanche la più superficiale e di cui i grandi scrittori riescono a mettere in rilievo la sottile importanza) in modo più acuto e come necessitato.
Certo avrei potuto esprimermi su questo tema “Una vita in scrittura” in modo molto differente, presentando mio curriculum come tradizionalmente e anche giustamente si fa in questi casi, ma ho privilegiato questo particolare sguardo anche perché quest’anno mi accingo a portare a compimento un mio primo romanzo che altamente mi responsabilizzerà e che, date le premesse fatte, sarà inevitabilmente drammatico, nel senso che porterà inevitabilmente a galla la eterna drammaticità della condizione umana.
Ancora una volta ringrazio la lettura, la conoscenza dei grandi artisti, la scrittura di chi ha reso più acuto, (e più partecipante quindi delle vicende umane tutte) il mio personale sguardo.
Penso che il mio romanzo partirà da questo particolare incipit:
QUELLO ERA IL GIORNO
Quello era il giorno. Sarebbe stato il giorno, o almeno lo avrebbe dovuto essere- chissà mai… doveva, doveva esserlo, dopotutto- si disse, lei avrebbe fatto tutto perché lo potesse essere. E allora guardò attentamente il panorama, guardò minuziosamente quel panorama angolare, prospettico rispetto a ciò che si poteva scorgere dalla finestra della camera da letto – angolare anche essa e in alto rispetto a quella particolare abitazione stretta e rientrante- era ubicata in una superficie dall’aspetto vagamente similare a un trapezio sghembo-compressa e ben presto in ombra nei giorni brevi dell’inverno, ma che si dilatava nella scenografia esterna di un verde parossistico che, sulla linea dell’orizzonte, era racchiuso da uno zigzagare di profili digradanti e non omogenei di quelle che si sarebbero potute definire collinette e dossi, a stabilire il perimetro di uno spazio a conca e nel contempo spezzato, di curve e controcurve, di una struttura morfologica labirintica- non esatta, non esatta- di spinte e controspinte- di un assestamento geologico mai avvenuto, di un monte avvolto maniacalmente su se stesso e che mano mano si determinava a defluire – con una base di diametro a crescere deforme -avvolgendosi su se stesso come un rettile preistorico per rinculare al termine ultimo contrassegnato dal letto incassato di un torrente di un paese più grande che- quando non vi erano nebbie umidissime a nasconderlo -poteva essere visto fin da più di uno dei diversi punti della cintura circolare della frazione in cui lei abitava. Sulla sua sinistra, visto la prospettiva particolare in diagonale- ci si accorgeva ancora maggiormente di quanto uno dei limiti proprietari della bianca abitazione contigua fosse stato definito senza nessuno sforzo volitivo, avendo invece i loro vecchi proprietari seguito come naturale confine sinistro la linea del tratturo principale che si inerpicava- diramandosi poi in mille biforcazioni di sentieri e sentierini che si immergevano in boschetti di carpini e noccioli che ormai imperversavano selvaggi anche là dove un tempo erano esistiti campi coltivati – fino alla sommità di uno dei tanti dossi o cime delimitanti l’incassatura di quella frazione montagnosa: e questa sensazione – come di un qualche confine prontamente violabile -era palpabile anche a un immediato impatto superficiale, tanto più che non si era sentita la necessità di optare da quella parte per manufatti di muratura o metallici per rinchiudere, oltre a una limitata porzione della costruzione stessa, un fazzoletto di prato che racchiudeva uno sperone di roccia dalla forma estremamente compatta e senza sbavature che le sembrava- allungato e massiccio come era -un pezzo unico gettato da una forza magmatica in un punto preciso ineludibile. Conficcato ecco il termine esatto, quel monolite era conficcato obliquo nel margine esterno di un terreno piano ancora preminentemente sassoso nonostante un certo misurato- arduo anch’esso e spelacchiato nelle estati afose- verdeggiare di erbe frammiste a arbusti legnosi e a bei fiori campestri che sbucavano improvvisi e che non avevano bisogno di alcuna cura. In quel momento esatto, in un mastellone di zinco riverniciato di un verde acido erano cresciuti quelli che le parevano esempi di settembrini, con un alto fusto sottile e di una bella coloratura violacea. Quei fiori erano l’unica nota di vivacità in quel praticello che-data la sovraelevatura di uno dei diversificati corpi dell’abitazione in questione- aveva come suo confine destro un’alta muraglia che si inabissava decadendo nel suo proprio prato e che, nel suo ergersi prima dello sprofondare in basso, aveva reso necessario anche un atticciato muretto con -piantate in buche a distanza uguale al suo disopra- delle svettanti aste di ferro rugginoso che tenevano tesa una rete metallica a più linee orizzontali, una intelaiatura con un che di raggelato nella sua struttura spasmodicamente esatta e coordinata che le dava una parvenza ambigua di trama a filo spinato o elettrificato- quel fazzoletto disarticolato di prato le pareva incongruo e perennemente stretto, teso, confinato, di aspetto stento, pur nella sua posizione aperta e soleggiata, con un che però di incombente e precipitoso nella erta muraglia pietrosa che lo tratteneva artatamente.
E spiccava spesso su quel praticello – pressoché alla medesima altezza rispetto al livello del davanzale delle finestre del piano più alto – un totem immobile, una macchia nera e opaca, che contrastava sul giallognolo illividito di un cumulo scomposto di erbe falciate e ormai marcescenti, accumulate a lato inerti e come di fretta. Era uno dei due felini allo stato semi selvatico che si aggiravano spesso in quella parte della frazione, padroni degli esigui appezzamenti e dei più ampi impiantiti di pietrame autoctono, che contornavano edifici per la maggior parte abitati unicamente nei periodi estivi. Quel gatto appallottolato al sole d’autunno era l’unica solitaria presenza di quell’angolo, all’estrema propaggine di una delle due strade che permettevano di raggiungere il paese, la più bella come panorama naturale, la meno usata dopo la frana che l’aveva interrotta per anni, prima di un suo parziale ripristino. Da quell’angolare osservatorio perimetrato strettamente, il cielo le pareva altissimo. E nel contempo stranamente vicino, tanto che gli stormi di uccelli ora in migrazione le sembrava di riuscire a toccarli quando – lanciando grida stridule e a improvvise ondate cuneiformi spezzavano il velame di un cielo spesso neutro e di luce bassissima, mentre invece l’alba era anch’essa lattiginosa ma fulgente con il sole molto più aderente su quella linea dell’orizzonte che per il momento rimaneva occultata dagli alberi altissimi e di un verde compatto che riempivano disordinati massivi -e attorti l’un altro- le due altre parti laterali di quella sua casa alta e stretta… Il lato destro rivolto a sud era fortemente limitato dal protrudere massiccio della seconda abitazione contigua mentre dalla parte di quella che si poteva definire per consistenza una terza delimitazione –a millesimale aderenza confinaria con un exstallatico rimesso a nuovo-occhieggiava verde tra il verde una cancellata laccata che doveva permettere a fil di piombo una antica servitù di passaggio. L’intero panorama – con la sua attuale ma non sempiterna sovrabbondanza di verde che la circondava – e con le parti divisorie di cancellate e muretti a filo spinato e cinte plastificate e provvisorie- in attesa che le siepi di red robin crescessero esponenzialmente come lei sperava-le dava un senso torbido di recinzione sia pure nell’ampliamento da quinta teatrale- mirabile risultato di una falsata dilatazione prospettica-nello sperdimento solitario in quella natura incontaminata, che arrischiava – in certe particolari giornate -di diventare soggiogante ai limiti di una qualche fredda sopraffazione emotiva come lei potesse mai naufragarvi senza scampo: l’angolo ultimo della porzione della frazione rurale digradava sassosa su due livelli, ognuno dei quali presentava in posizioni e per motivi differenti un alto muraglione di contenimento- due arcaici terrazzamenti che finivano per incunearsi, dopo una curvatura stortignaccola e dissestata, nella vecchia stradina di cui man mano che la stagione autunnale progrediva lei poteva occhieggiare –pallido nel tremendo accerchiante verdeggiare-lo strano lucore serpentinesco, in un’aria polverosa e tintinnante di echi mai uditi, di occultate storie crudeli sul punto di essere svelate.
E presto sarebbe giunto -l’inverno.
VILLA DOMINICA BALBINOT
Blog ( qui iniziato a cimentarmi nella scrittura a partire 2005/6
https://inconcretifurori.wordpress.com [qui compaiono tutte le mie poesie fin dall’inizio]
posto qui la mie 2 ultimissime
TUTTO SEMBRAVA FISSO
Tutto sembrava fisso
immobile purissimo
(verso le colline che scoloravano,
lì d’estate vi bruciavano, i fiori):
nella sua assai nuda mano
una striminzita linea
solitaria terminale.
Attraverso
l’arco bianco delle mille morti
-sotto alberi la cui ombra olivastra
annega l’azzurro dell’ala di uccello-
distinse le venature azzurre dei loro corpi,
c’era un tumulo giallastro
( e un mazzo di papaveri in un vaso azzurro)
nella morbida marea verde
una strada metallica.
Era come guardare
nella cavità di una pietra blu scuro
e c’era qualcosa di definitivo
di suggellato:
lei provava una appassionata tenerezza,
per tutti quei fiori accesi
senza stagione.
E SI ERA ANDATI ( VERSO I CAMPI DI PORPORA)
. E si era andati,
verso i campi di porpora
in un paradiso arido e giallo
( L’ interno era una estensione
enorme e solitaria
la terra era come l’avevamo sempre conosciuta,
fulva e azzurrognola,
-e tetra nella pioggia)
In quell’ora gialla
che si stava chiudendo su di noi
usciti in una città mirabilmente dura
nell’ ardore rosso del sole,
nella paura delle epidemie
ci si sentiva come tanti abietti cani;
nella veste di uccisore( e di controllore dei macelli)
ogni cosa si emaciava
come lo scheletro grigio di una foglia
in una sanguigna nitida profilazione
tra fiori delicatamente incolori
bianchissimi al sole.
https://dellaidrairacconti.wordpress.com [ qui miei brani brevi e racconti
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3 risposte a “Una vita in scrittura: Dominica Villa Balbinot”
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Cara Marina ti ringrazio per il tuo intervento e peR essere riuscita a cogliere Il significato profondo e essenziale ( molto spesso salvifico anche)che do all’ arte : e sono contenta della tua aderenza a questa analisi. Ti sono grata x tue belle considerazioni ma di ciò mi avevi e mi dai tante continue prove ..Grazie molte per tutto, allora.
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Dominique, ti sei spesa in questa analisi iniziale ( vorrei scrivere intanto di questa) con parole istintivamente molto profonde, cogliendo il fatto che che l’arte può esprimere portando fuori, da sotto le apparenze incidentali, la sostanza insita e sofferente del mondo. Sono d’accordo con te . Complimenti per l’acuta analisi e per il persistente impegno nel tuo artistico lavoro
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