Subito si era messa a trafficare nella vecchia stalla risistemata dai muratori serbi, che secondo la sua volontà avevano lasciato immutata nel complesso quella sua struttura in pietra massiccia ripulendone però al meglio le pareti dalle raffazzonate rabberciature di cemento e appianando con l’innesto di altre losanghe massicce il pavimento in ambedue le sue parti laterali, dato che si presentava grezzo e polveroso- di terra battuta- nella sua parte centrale scanalata- per il refluo di acque e delle deiezioni delle bestie lì allevate-rispetto ai due lati, uno dei quali lei lo aveva fin da piccola chiamato “la mangiatoia” per via di quel sopralzo inchiavardato-a mo’ di gradinata e delimitato da un’ asse di quercia ormai smangiata a metà e sopra lav quale faceva ancora bella mostra arrugginito un anello di notevoli dimensioni di quelli a cui un tempo si attaccavano i bovini.
A questo stesso anello molto spesso era stato lo stesso suo padre a tenere legata parecchio tempo addietro- nei suoi periodi di calore- la cagnetta randagia – sbucata fuori allupata chissà da quale mai frazioncina sperduta lì attorno, tra quelle innumerevoli sparpagliate come schegge attorte, quasi fossero esigui frammenti deflagrati in epoche ancestrali -e a casaccio-in quel vasto informe territorio boscoso e irto, di vallette amene e contrafforti aridi che nascondevano smottamenti e calanchi in caduta precipitosa, intervallati da ampi campi inselvatichiti. Continua a leggere
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